Carissimo direttore, ho deciso di scriverti dopo questi mesi di pandemia, ma soprattutto dopo che l’opinione pubblica ha cominciato a riempirsi la bocca di slogan sulla libertà. La ragione di tanto interesse popolare va ricercata nelle restrizioni, nel coprifuoco e nella tanto vituperata mascherina. Nel frattempo, di passaggio nei pressi del nostro Castello, dove una dolce musica alleggeriva la calura estiva, gli occhi mi si sono posati sulla lapide in ricordo di quei ragazzi morti in guerra nel 1945. Morti per la libertà, ma quale? È evidente che la nostra percezione di libertà sia molto cambiata se oggi una museruola di polipropilene ci induce alla protesta. Così ho ripensato al concetto di libertà, non tanto ad un concetto ontologico, visto che ritengo inopportuno parlare di libertà tout court quando la prima prigione è il nostro stesso corpo, quando lo stesso corpo ci impone il qui e ora e quindi la somma limitazione spazio-temporale, quanto piuttosto ad una libertà che potremmo definire sociale. Di scelta o presunta tale. Per comprendere un concetto astratto, l’unico modo è trasformare l’astrazione in una esperienza personale. Non posso parlare di libertà, se non sono io a pormi la domanda come soggetto percepente, quindi a chiedermi: quando sono libero?
UN PO’ DI STORIA
Secondo una definizione accettata comunemente, per libertà si intende la condizione per cui un individuo può decidere di pensare, esprimersi ed agire senza costrizioni, mediante una libera scelta dei fini e degli strumenti utili a realizzarla. C’è quindi una percezione positiva della libertà (autonomia e spontaneità) e una negativa (assenza di sottomissione). Ma siamo veramente liberi di scegliere? Per i Greci, la libertà era riservata alla politica e alla religione. Come osservò il filosofo Hobbes, la libertà in Grecia era legata più all’autonomia dello Stato che all’individuo, con lo scopo di rendere lo stato ordinato. Dal punto di vista religioso, la libertà si legava al fato, a cui tutti erano sottomessi in quanto forza causale e quindi necessitata. Dunque, l’uomo libero era colui che accettava il proprio destino per la salvaguardia dell’equilibrio e dell’armonia universale. Alla categoria della libertà si introduce
l’elemento delle scelte morali e razionali. Secondo le tesi socratiche, l’uomo è mosso da una sorta di attrazione al bene e di involontarietà del male. Infatti, l’uomo è spinto al bene per la propria felicità e quando sceglie il male in realtà è mosso da ignoranza e quindi scambia il male per il bene. Con l’avvento del pensiero cristiano, si discetta sul concetto di peccato originale e di grazia. è la buona volontà più che la razionalità ad originare la libertà, che può affermarsi solo con l’intervento della grazia divina. Secondo tale presupposto, la volontà, corrotta dal peccato originale, sarebbe schiava delle passioni e dell’egoismo e quindi incapace di essere libera. Per Hobbes, il filosofo dell’homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’uomo), che teorizzò l’assoluto egoismo dell’uomo affermando che solo l’istinto di sopravvivenza e la sopraffazione muovono l’azione umana, la libertà è l’opportunità di agire senza ostacoli materiali. Così Leibniz arrivò a dire che «quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa fare ciò che si vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza» Ma da cosa? Spinoza risponde in parte, affermando che non esiste libertà per l’uomo, proprio perché «gli uomini sono coscienti delle loro passioni e appetiti, ma non conoscono le cause che li determinano». Dunque, pensano di possedere e utilizzare le proprie passioni, ma non conoscendone le cause, sono solo esposti all’effetto e non alla causa. Quindi Spinoza ritorna alla libertà come accettazione della legge di necessità che domina l’universo.
Kant è determinato a fare un passo in avanti. Non potendo affermare la libertà nel mondo sensibile, in quanto ogni atto è naturalisticamente condizionato, cerca una responsabilità (quindi libera) nelle scelte morali. Visto che la scelta morale implica una necessità (in quanto non si sfugge alla scelta), razionalmente l’uomo è costretto a porsi il problema della scelta.
UNA DEFINIZIONE IMPROPRIA
Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, nell’articolo 4 si scrive così: «La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla Legge». In termini semplificati e comuni, questa affermazione si riassume nella consueta «la mia libertà finisce dove inizia la libertà dell’altro». Ma cosa vuol dire? È davvero così? Se analizziamo la frase, ci rendiamo conto di quanta arbitrarietà ci sia in questi confini; chi o cosa stabilisce dove possa cominciare la libertà dell’altro? Se l’altro decidesse che la sua libertà comincia laddove mi si toglie spazio, io resterei libero? Senza valori riconosciuti universalmente, si presterebbe il fianco alla sopraffazione, e lo spazio del più forte diventerebbe la condanna del più debole. C’è poi un aspetto che non si può trascurare, ossia il naturale egoismo dell’uomo. Davanti ad una scelta di sopravvivenza, quale potrebbe essere il confine impersonale che dà spazio all’altro? Perché l’affermazione di cui stiamo disquisendo abbia una validità oggettiva, è necessario inserire nel ragionamento la categoria della responsabilità.
LA RESPONSABILITÀ
La parola responsabilità ha una radice bellissima. L’etimo ci riporta al verbo latino respondere (rispondere), composto dal prefisso re (ripetersi di un’azione nello stesso senso o in senso contrario) e da spondere (promettere, nel senso di obbligarsi). Quindi potremmo dire che la responsabilità è una ripetuta promessa, un obbligarsi continuo a qualcosa o a qualcuno. Ecco allora che la questione si complica; è possibile parlare di libertà se la responsabilità
implica un obbligo? Qui è necessario introdurre l’alterità, ossia il non io, ciò che si contrappone all’io. Siccome siamo esseri in relazione e ci riconosciamo grazie alla diversità con l’altro, ecco che l’altro diventa fondamento per il nostro stesso esserci. L’altro si fa misura della nostra responsabilità e ci obbliga a scelte differenti dall’egotismo. La responsabilità è sì un obbligo verso l’altro, ma è l’obbligo necessario perché non venga oscurato il nostro io. Siamo perché l’altro ci obbliga al riconoscimento e quindi ad una scelta per la nostra stessa affermazione. Solo così il confine tra la mia libertà e quella dell’altro acquisisce uno statuto valoriale e quindi necessario all’esistenza. Siamo liberi se attraverso il riconoscimento dell’altro possiamo scegliere nell’ottica della relazione. Paradossalmente la libertà di scegliere se vaccinarsi oppure no va nella direzione della nostra stessa salvezza. Mi vaccino affinché l’altro possa esistere e quindi riconoscermi.
IL LIBERO ARBITRIO
Nella dinamica della scelta ecco che il libero arbitrio si fa elemento determinante per la nostra libertà che è sempre sociale e mai ontologica. Abbiamo già detto che dal punto di vista dell’esserci, la libertà è un’utopia in quanto lo stesso nostro corpo è di disturbo perché ci determina in uno spazio e in un tempo obbligati. Sono ad Abbiategrasso e quindi non posso essere a Roma, vivo nel 2021 e non durante la Guerra di Troia e nella pancia del suo cavallo. Affermata questa evidenza, siamo sicuri che davanti ad una scelta siamo davvero liberi? Mi spiego. Se fossimo davvero liberi, ossia capaci di fare davvero quello che vogliamo, avremmo bisogno di tutte le variabili della possibilità. La scelta, quindi il libero arbitrio, sposa tutte le variabili o si limita solo ad alcune possibilità? A me sembra che anche davanti ad una scelta siamo obbligati a scegliere tra un ventaglio determinato di possibilità. Indosso la mascherina o non la indosso? Ci sono altre possibilità?
I VALORI
Appurato che i nostri spazi di libertà si restringono davanti ad una scelta, è necessario avere elementi assoluti o predeterminati che indirizzino la nostra stessa scelta. Ecco allora l’importanza di valori comuni. Già Nietzsche con il famoso “Dio è morto” ci allertava sul rischio del nichilismo e del relativismo. Galimberti, filosofo contemporaneo, sintetizza così l’affermazione nicciana: manca lo scopo, manca il perché, i valori si svalutano. Che i valori si svalutino perché si modificano è anche nell’ordine naturale della cosa, ma quando viene a mancare uno scopo e quindi il perché dell’azione che tende a raggiungerlo, ecco che l’uomo si disorienta, e un uomo disorientato è un uomo in preda all’istinto. Basta guardarsi in giro per avere il quadro abietto dentro il quale siamo finiti: ha ragione chi urla di più. Nel vangelo, Gesù di Nazareth affermava che solo “la verità rende liberi”. È quindi possibile una libertà senza verità? E ancora, possiamo credere in una verità se è composta arbitrariamente da tante piccole verità in base al sentire personale? Caro direttore, chiedo scusa per la prolissità, ma mi sembrava utile condividere qualche riflessione su un tema complesso e quasi sempre ridotto a becero confronto. Ho tentato di essere breve, ma esauriente. Spero che da qui possa partire la riflessione di molti.
Libertà? Noi "vittime" e i martiri veri
02/07/2021 - Stefano Re