LA VITA CON DISABILITA' AGLI ARTI

10/01/2022 - Claudio Pirola

Come disse Ezio Bosso, indimenticato musicista e persona straordinaria, "ci sono persone con una disabilità evidente in mezzo a tante persone con disabilità che non si vedono". E' un dato di fatto che la nascita di un figlio in totale privazione o malformazioni di arti tenda a creare in prima battuta disorientamento. Un figlio è l'aspettativa di una vita. Ancor prima che nasca, si sogna, si delineano prospettive, si fanno progetti immaginando quale mondo sarà. Cambia la grammatica del vivere quotidiano, tutto proiettato verso un futuro che supera il presente. Si vive uno stato nascente travolgente, rivoluzionario. Il disorientamento può degenerare in trauma quando una nascita con malformazioni giunge oltremodo inattesa, calata in un mondo che privilegia immagine ed esteriorità. Con severi contraccolpi che mettono spesso a dura prova la stabilità della coppia. Dall'altro lato, paradossalmente, può succedere l'esatto opposto: si mettono in moto energie sconosciute, trasformando la famiglia in un motore potente. Con questo spirito un gruppo di famiglie con bambini nati con malformazioni agli arti diedero vita oltre 30 anni fa a "Raggiungere" (www.raggiungere.it) nel solco dell'esperienza di "Reach" in Gran Bretagna. L'avere conosciuto questa associazione è stato di grande conforto. Non vi abbiamo trovato solo consigli "tecnici" (protesi sì/no? interventi chirurgici? quali officine ortopediche? che ne sarà con la crescita? e poi la scuola, il lavoro, a maggior ragione trattandosi di figlio adottivo ...) ma soprattutto una grande famiglia dove poterci confrontare con tutta la naturalezza che il caso richiedeva, confortati dall'esperienza di chi già in quel mondo aveva imparato a navigare. Raggiungendo mete. Nostro figlio − insieme con i suoi due fratelli − è cresciuto. Non solo anagraficamente. E noi con lui. L'"handicap", parola obsoleta usata per definire una "condizione" che vive una persona con disabilità, ci ha messi (e ci mette) di fronte giorno dopo giorno a misurazioni a cui mai si era pensato prima, esplorando un mondo tutt'altro che remissivo e passivo: al contrario, come abbiamo scoperto, carico di energia e pieno di voglia di farcela, tentando sempre l'impossibile per raggiungere il possibile. Senza scorciatoie, che raggiugerebbero il solo obiettivo − in quel caso sì − di far sentire una persona con disabilità come un soggetto "diverso" su cui riversare attenzioni iperprotettive a danno della sua crescita e in ultima analisi della sua esistenza. Se è vero che la famiglia ha il ruolo primario nel gestire le responsabilità che le competono nel contesto della crescita del proprio figlio avvalendosi, nel pieno distinguo di ruoli, di tutte quelle realtà specialistiche che la possano aiutare in questo, è altrettanto vero che dentro la società devono essere create le condizioni affinchè una persona con disabilità possa sentirsi parte integrante ed integrata della stessa. Per raggiungere questo obiettivo, c'è bisogno di uno sforzo anzitutto culturale importante, precondizione che deve investire trasversalmente mondi apparentemente lontani tra loro ma necessariamente convergenti: scuola, lavoro, politiche attente ed efficaci a favore della famiglia non devono essere entità o processi astratti e come tali non legati da un filo conduttore, bensì realtà virtuose con il fine unico di creare contesti, spazi, ambienti, città a misura di disabile: poichè tutto questo crea realtà migliori per tutti. Le recenti Paralimpiadi hanno mostrato al mondo intero, oggi più che in passato, di cosa sono capaci persone che vivono una forma di disabilità come conseguenza di malformazione o assenza di arti. Ho avuto il piacere di incontrare in più circostanze fra altri la giovane Bebe Vio e la meno giovane Francesca Porcellato, campionesse di eccellenza. Le guida certamente una straordinaria passione per lo sport ma soprattutto un amore per la vita che le ha spinte a osare ogni giorno di più, con fortissima autodeterminazione, raggiungendo traguardi per molti "normodotati" inimmaginabili. Non solo nello sport. Ma questo non deve rappresentare un'eccezione. Sono sempre più convinto che la dignità di una persona con disabilità si possa affermare attraverso un "gioco di squadra" che vede al centro il disabile supportato in modo non invasivo dalla famiglia in un contesto organizzato che deve garantire la possibilità di organizzarsi ed esprimersi, vivere senza fargli sentire il peso della sua condizione. Una famiglia si sentirà così più a suo agio nel riparametrare tempi per il raggiungimento di obiettivi, rimodulando aspettative e reinventando sogni, accompagnando con pazienza ma soprattutto tenacia il/la proprio/a figlio/a affinchè si renda sempre più autonomo/a nel conquistare, passo dopo passo, la pienezza della propria vita. L'amica Simona Atzori, ballerina e scrittrice senza arti superiori, mi disse un giorno in una nostra conversazione: "Penso talvolta che i veri limiti esistano in chi ci guarda".