Egregio Direttore, ti scrivo in merito al fattaccio capitato presso l’Istituto Superiore Alessandrini di Abbiategrasso. Ti scrivo non per dare seguito agli spunti moralizzatori di chi commenta partendo sempre dallo scranno più alto, ma provando a comprendere quanto si è inceppato nelle relazioni, nel culto della piazza e nelle dinamiche educative. Sarebbe facile dare addosso ad una gioventù che inevitabilmente si scontra con l’adulto, ma questo atteggiamento riprodurrebbe il disagio tra generazioni, senza portare contributi positivi.
Ho sentito parole intransigenti contro il ragazzo, più dagli adulti che dai ragazzi che conosco, frasi violente contro la famiglia, addirittura parole cariche di astio contro l’Istituto, tutte indirizzate alla propria autoassoluzione, come se quanto accaduto ci rappresentasse solo come spettatori, dimenticando che “nessun uomo è un’isola” come diceva John Donne.
Ma è proprio questo il punto; provare ad oggettivare il dramma, interrogarsi sulle nostre responsabilità, senza cadere nel giudizio autoassolutorio. Viviamo un individualismo che isola l’umano dimenticando che l’uomo è relazione. Ciò che ci capita di lato non ci riguarda, se non come esposizione di giudizio, come materia su cui disquisire senza coinvolgimento. Abbiamo perso il culto della piazza, quel luogo che si trasformava in narrazione, quel luogo dove giovani e vecchi si confrontavano sull’esperienza. Era lì che si diventava grandi. Non c’era la paura di educare, non c’era il timore di spiegare l’errore, tutto avveniva attraverso la comunità e la comunità era il passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta. Oggi cerchiamo il nostro benessere individuale, temiamo il confronto, senza comprendere che la solitudine sviluppa teorie autoassolutorie. Tutto funziona finché qualcosa non rompe l’equilibrio. Abbiamo diffuso l’idea della perfezione, del riuscire ad ogni costo, dimenticando che le fragilità sono la materia su cui costruire la nostra vita. “Sono i piedi di argilla a rendere prezioso l’oro dell’idolo” spiegava Oscar Wilde a proposito della fragilità. Lo diceva lo scrittore più esteta della storia della letteratura, colui che solo grazie all’esperienza del fango ha scritto quel capolavoro che è il De Profundis. Solo nella fragilità, nell’esaltazione della debolezza l’uomo comprende che ha bisogno della comunità, ha bisogno di sorprendersi perdonato, nonostante tutto e tutti.
E poi c’è la violenza, la decadenza della giustizia, che pongono l’uomo davanti al vittimismo, all’impossibilità redentiva. “L’odio, hai ancora da impararlo, uccide tutto fuorché sé stesso”, scriveva Wilde al ragazzo che amava e per cui si era guadagnato la galera, quindi la malattia e infine la morte. L’odio che sembra l’ultima parola per farsi giustizia. Viviamo un mondo che parla di amore, ma che dimentica il sacrificio di sé stessi. Non c’è amore se non diamo spazio alla morte dell’io, all’esaltazione del tu in un continuo scambio di ruoli.
Parliamo di autodeterminazione, salvo poi scandalizzarci quando avvengono queste disgrazie. Non sappiamo più ammettere che l’uomo si realizza nella relazione, si realizza quando, come scriveva Pascoli nella poesia I due orfani, c’è qualcuno che ci perdona. Dobbiamo recuperare la gioia della fragilità, questa strana parola che ci rende fratelli, che ci permette di riconoscere l’altro. Riconoscere l’altro significa aprirsi alla possibilità, all’idea che tutto si può risolvere, che non servono gesti estremi per farci riconoscere. Questo deve fare la scuola, questo devono fare le Istituzioni. La cultura è il seme dell’esperienza, è l’atto di coraggio che la società ci chiede, perché un mondo che si chiude in sé stesso non ha altri sbocchi se non la violenza. Diciamo ai nostri ragazzi, urliamo loro che non esiste l’idolo se non nella misura dei suoi piedi d’argilla, friabili e bisognosi di amore.
“NESSUN UOMO È UN’ISOLA”: LA LETTERA DI UN PAPÀ SUL FATTACCIO DELL’ALESSANDRINI
30/05/2023 - Stefano Re